2017

La cultura ha letto la natura derivandone un ordine sociale. Ma la contrapposizione binaria dei sessi ha posto il maschio nel dominio degenerando la dialettica dei ruoli. L’arte attraversa e ridiscute la norma mettendo a nudo la violenza della dicotomia, decostruendo motivi e direzioni. Il vissuto doloroso del corpo femminile chiama a nuove dimensioni dei generi e delle relazioni.

Italia Gualtieri


Una mostra sull’identità smarrita dell’Aquila, uno sguardo sulle città che spostano i loro spazi.
Venerdì 3 novembre il racconto narrativo e fotografico di Caterina Serra e Giovanni Cocco DISPLACEMENT, dopo l’anteprima del 2015 al Macro di Roma, giunge a Sulmona con il suo capitolo dedicato alla tragica mutazione della città abruzzese.
Promosso da Sulmonacinema con la cura dello Spazio Maw, è il prologo poetico dell’imminente 35° Sulmona International Film Festival (SIFF) in programma dall’8 al 12 novembre 2017, l’anno del Bimillenario della morte di Ovidio, il grande vate delle trasformazioni.
 
DISPLACEMENT è un viaggio di parola e di visione, due modi di guardare che Giovanni Cocco e Caterina Serra hanno voluto indipendenti e al tempo stesso dialoganti per raccontare lo spaesamento fisico e mentale che sta crescendo negli spazi urbani.
Nato come sguardo sulle città che in Italia e in Europa stanno stravolgendo il rapporto centro-periferia, mutando la natura della vita sociale e i luoghi della memoria individuale e collettiva, il progetto ha preso avvio con il lavoro dedicato a L’Aquila, città simbolo della perdita di centro e della dispersione della comunità.
 
Oggi DISPLACEMENT approda per la prima volta in Abruzzo in occasione del Sulmona International Film Festival.
  
11 fotografie a colori realizzate in pellicola sono accompagnate da 8 testi, in una doppia narrazione intima e appassionata di grande forza comunicativa. “Reali e stranianti, immerse in un bianco gelido che copre e vanifica corpi, movimenti, esistenze, le immagini di Giovanni Cocco – scrivono i curatori del Maw nel testo che accompagna la mostra – riverberano l’annichilimento dell’Aquila, paralizzata fra un passato distrutto e il presente incerto e vuoto delle “New Town”. Accanto, la scrittura-voce di Caterina Serra, solitaria e al tempo stesso dialogante, che aggiunge sguardi alla visione: di un presente così presente da turbare; di un’alienazione che blocca i desideri”.
 
DISPLACEMENT. NEW TOWN NO TOWN è un discorso, “è l’inizio di un viaggio – dicono gli autori – nelle città in trasformazione: Città Souvenir, Città Luna Park, Città Shopping Mall, Città Grand Hotel”. 


“E’ un viaggio che si snoda tra le pieghe della storia dell’arte contemporanea – dice Livia Compagnoni nel testo del catalogo che accompagna la mostra – attraverso i mutamenti degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, nell’era in cui si celebra l’atteggiamento della riflessione e re-visione critica nei confronti del concetto di evoluzione e progresso continuo. Così come nella vastità di raggio delle esperienze artistiche in corso, nei suoi sincretismi, nelle sue sincopi e aritmie estrinsecate in forme diverse che coesistono e si confermano reciprocamente (…) Scorre l’arte sotto le insegne della transizione, verso il tentativo di un nuovo modo di articolare la pittura, con balzi in avanti e improvvisi ritorni all’ordine figurativo. L’artista ha consapevolmente accettato il crollo dello spartiacque ideologico tra aniconico e figurazione: la presunta inconciliabilità dei due baricentri della pittura è in assoluto tramontata.” 


35 scatti per ricordare il suo sguardo, un omaggio all’amico e al fotografo scomparso troppo presto.

Una selezione di immagini relative a vari momenti del lavoro di Massimo Vasilotta, molisano di nascita e sulmonese di adozione, traccia un profilo eloquente sulle sue capacità e sulle sue doti umane e morali. La luce, le linee e i continui riferimenti alla condizione dell’uomo, alla solitudine, all’abbandono e al desiderio di avvicinarsi, di elevarsi eppure di restare attaccati alla vita reale, sono gli elementi centrali della ricerca dell’Autore e delle foto di questa mostra. Immagini immediate ma animate da una complessità emozionale e di senso; un’apparente semplicità dei sentimenti che travalica il segno e si riversa tutta intera nel cuore di chi osserva.

E’ uno sguardo gentile e dolce, quello che emerge, penetrante e riservato, competente e professionale, che tocca l’osservatore e commuove chi ha avuto il privilegio di conoscere Massimo, la sua passione di fotografo sempre più unita, negli ultimi anni, all’impegno didattico e sociale, espressione della sua fiducia in un mondo migliore dove ci sia spazio per tutti e per ciascuno.


Il web ha cancellato definitivamente il confine tra realtà e finzione, mettendo in discussione due principi fondamentali della nostra cultura, così anche il nostro concetto di estetica ne risulta stravolto. Il “vero”, in quanto elemento identificatore della realtà, si contrappone al “falso” generando un circolo vizioso: che cos’è reale? Quel che è falso è comunque reale? Dov’é il confine?
Nell’epoca del veramente “falso”, in quella sorta di mondo parallelo che è la “rete”, l’osservatore/autore assurge ormai a ruolo di opera stessa e la vita in vetrina diviene un’incessante espressione artistica. Cosa è vero e cosa è falso? Invece della dualità vero/falso,
occorrerebbe piuttosto riflettere sull’efficacia o meno di un elemento, valutando il suo valore non tanto da specifiche caratteristiche intrinseche, piuttosto dagli effetti che determina.
Mi intriga molto l’ultima frontiera dell’arte digitale, l’orizzonte della “foto-manipolazione”, che nell’orizzonte composito e indefinito delle fine arts, in tempi recenti si è fatta strada nel mondo dell’arte, per esplorare con altri mezzi tecnici l’inconscio e il mondo onirico. Manipolazione come non plus ultra del “falso” che viene alla luce e diventa reale, concetto e tecnica che non si identificano con il mero fotomontaggio, ma vanno oltre e si esprimono in una serie infinita di sfumature ed espressioni che usano e fondono molte delle discipline artistiche, dalla fotografia alla pittura, dalla grafica al collage.
Il mondo dell’illusione e del sogno. Opere che riprendono e perfezionano lo stile dell’illustrazione fantastica e del surrealismo, approdando a creazioni sorprendenti. Una disciplina che affianca nella stessa misura la conoscenza tecnica nell’uso e gestione delle immagini digitali, con il talento più propriamente artistico del saper inventare e creare con la fantasia. Innovare le tecniche tradizionali e insieme lasciar parlare le nuove tecnologie, questo in fondo è il concetto. L’arte come mescolanza per raggiungere l’opera “complessiva” ha ormai un solo limite, quello della tecnica. Dagli esperimenti di Nadar e Man Ray alle installazioni tutto video della Biennale di Venezia, la fotografia resta una fonte inesauribile di ispirazione e sperimentazione per raccontare l’uomo dell’era digitale.
Questa missione contribuisce forse a ricucire la diatriba tra analogico e digitale nella fotografia: conta solo l’arte e la forza con cui l’artista esprime la sua visione. Non è il mezzo che conta ma l’opera finale, lo scopo ultimo, quello di esprimere la visione artistica e personale del fotografo, raccontando una storia, creando una realtà parallela spesso fantastica.


 Giancarlo Guzzardi


48 opere tra incisioni, disegni ed oggetti in forma di libro compongono questa mostra di Camilla Palazzese dedicate al tema affascinante delle trasformazioni.
Ispirata dalla grande favola di Ovidio, l’artista gioca con le sue storie: il segno insegue e si diverte nell’incastro delle trame e accumula visioni di un sentire incantato, forme oscure e leggere matericamente e psichicamente elusive, ironiche e arcane figure a evocare il flusso che non ha mai fine. Ma il continuo divenire delle mutazioni è dimensione e coscienza che informa e spinge l’arte di Camilla e allora i miti più cari diventano esercizio e dispositivo per una più profonda consapevolezza: le figure mutanti si generano come processo costruttivo di un libro che si fa struttura-portavoce di una poetica, ‘luogo’ stesso della “metamorphosis”, dove lo spettatore, spostando e ricomponendo le pagine, assiste e partecipa direttamente alla trasformazione delle immagini e all’esperienza, così, della mutevolezza.

Italia Gualtieri


Non è la prima volta che Girolamo Botta espone le sue opere a Sulmona, ma io considero un privilegio poter ammirare di nuovo una sua personale al Maw. 
I lavori dell’artista non passano inosservati, sono carichi di espressività, di vita. D’altronde buon sangue non mente. Girolamo è un giovane siciliano che vive con passione ogni momento della sua esistenza e tutto questo trasporto lo ritroviamo ed ammiriamo nei suoi dipinti. 
Radici e Colori è il titolo della personale che si terrà dal 3 al 7 giugno 2017. Il colore domina la tela, dà vita alle scene, è la linfa con cui Botta descrive da lontano la sua città, Palermo! E’ un sentire nostalgico quello dell’autore, perché legato ai ricordi della sua infanzia. Ed è così che, nel suo colorato splendore, appare sulla tela la vita di Palermo, con le sue abbaniate (urla) al mercato del pesce, con i carretti dei contadini carichi di cassette fino all’inverosimile, con i vicoli freschi dove trovare riparo, con i profumi variegati e con i paesaggi struggenti e mozzafiato. Lo sguardo di un bambino che si perde tra le piazze, i minareti, il mare e le montagne sono esperienze che segneranno per sempre un vissuto di cui non si può più fare a meno. Per questo, a distanza di anni, i sentimenti ci riportano indietro nel tempo, perché abbiamo nostalgia di quel legame e di quel benessere fatto di cose semplici. Tutto ciò prende forma con la tecnica che Botta più preferisce, la tecnica ad olio.
Sono esposte 25 opere realizzate nel 2017 che vanno dalla natura morta come “I Limoni” e “U pisci spada”, a scene di vita come i paesaggi, le vedute di Palermo e “Il mercato del pesce”, alla rappresentazione figurativa dei protagonisti della vita siciliana che ritroviamo ne “Il pescatore” o ne “Il campiere mafioso”. Una personale che merita di essere vissuta e visitata.

                                                                         Wladimiro Maraschio


Tre importanti personali nell’ultimo quinquennio, prolifica e vitale, oggi come al suo esordio, nel segno di una ricerca felicemente sintetizzante le declinazioni più connotative della pittura astratta, Rena Saluppo appartiene agli artisti che esibiscono un chiaro e pieno protagonismo della propria arte. Il suo lavoro ha messo a punto una scrittura pittorica inconfondibile: articolati incroci di linee curve continue a generare molteplici e ininterrotte porzioni di superficie che poi si colorano di tinte e forme diverse ma che costruiscono un marchio peculiare. L’impronta di un’istanza che è idea della creazione pittorica come libera rivelazione di sentimenti, di impressioni ma, pure, del potere “magico” e svincolato del segno, dell’assoluto della forma e del colore che investe l’occhio di altre suggestioni. 
Cielo, terra, mare, la vibrazione meravigliosa degli elementi, la danza della vita e l’incontro d’amore sembrano per metafora la pittura di Rena, i suoi giochi di linee intrecciate, il concerto festante di esperte partiture al ritmo ordinato di forme e cromie – ellissi e sinusoidi, cerchi e triangoli e coni rovesciati colorati ad olio diluito – dove lo sguardo annida favole e umane passioni, riscontra memorie visive ed emozionali. Senonchè, l’immersione accurata e gioiosa nelle variabili geometrie della traccia scopre un’indagine che è piacere, altresì, di intrinseche armonie, di una vita propria delle forme e del colore che seduce e di-verte l’artista volgendone l’espressione ad immagini reali di un autonomo processo di immaginazione.
Iniziata la sua attività nell’ambito del realismo e della pittura figurativa, l’artista abruzzese, nativa della solare Pescara, univa alla sua prima formazione nell’arte gli studi di architettura, cui la votavano l’innata e mai espunta tensione alla disciplina e al controllo razionale della creazione. Maturava così il profilo di una nuova espressione, un personale esercizio di libertà che all’iniziale purismo geometrico, percorso come eccitante rivelazione, avvicendava una più sorvegliata ancorchè dinamica emancipazione dalla referenza al reale: linea e colore sperimentano intuizioni e puri effetti di bellezza ma il dipinto resta spazio incantato in cui muovere irrinunciabili istanze di poesia.
Oggi la produzione di Rena esibisce una dispiegata personalità nel carattere costantemente evolutivo della sua ricerca. Opere come “Percorsi speculari”, “Anime”, “Leggerezza”, esiti di una pittura ancora e innanzitutto indagine di se stessa, liberano sapienti e sensuali strutture cromatiche e formali, più sicure e argomentative nella loro volontà di immagini volte alla nostra mente e a nuove seduzioni dello sguardo; e sciolgono più alta poesia in una certa ritrovata essenzialità figurale, gradita dopo un’insistenza, a volte, dell’icona, ora osmotica dilatazione del segno, o mimetica presenza, guizzo della linea che appare allegoria: ”Persistenze”, “Orizzonti”, “Teoria della vita”…
Non resta che abbandonarsi al nuovo slancio, all’immutata freschezza e “joie de vivre” di queste composizioni recenti. 

Italia Gualtieri

Arturo Faiella è un vero artista, fin dentro la figura sofferta, fragile ma nel contempo possente ed infinita nell’espressione visuale, generata da un profondo sentimento di interpretazione della realtà visibile riproposta attraverso un linguaggio “pop” nel senso più genuino del termine. Arturo nasce in un quartiere popolare di Sulmona e si inoltra presto nel mondo dell’Arte attraverso i passaggi formativi canonici, fino all’adesione alla problematica sociale dei Malati di Mente, all’incontro professionale con l’”arte utile” e alla scoperta da parte di Mario Bertoni. Le sue opere in mostra, estremamente coerenti, non sono quindi episodi reciprocamente connessi dalla sola tecnica dell’acrilico su tela o dallo swing lessicale. Arturo discende infatti da quella che Maria Pia Masella chiama la “seconda ondata” della Pop Art che, nata in Inghilterra (Hamilton), aveva infiammato gli USA (Rauschenberg, Warhol, Lichtenstein) per poi viaggiare, dalla fine degli anni Sessanta alla metà dei Settanta, sulla new wave di artisti russi (Vitaly Komar, Alexander Melamid), spagnoli (Equipo Crónica) e giapponesi (Ushio Shinohara e Keiichi Tanaami). Con questi autori Faiella condivide il sentimento ironico rivolto contro la società dei consumi di cui adotta il linguaggio gergale e le strategie comunicative. Il caos attentamente progettato è la contraddizione di base che non genera disordine ma consumo dell’immagine, in composizioni in cui tra manifesti, oggetti utili, slogan, ready-made campeggiano figure in falso movimento, sospese in una dinamicità atemporale. Il nostro personale favore va alle “meduse”, in cui l’universo figurativo dell’artista, “drammatico ma non serio”, si immerge nelle profondità marine. I festinanti cromismi rallentano in uno spazio pittorico che diviene rappresentazione di un “mondo fluttuante” (ukyo-e) ove il colore tende ad emanciparsi dalla forma ed il significante dal significato. Le opere in mostra meritano dunque un secondo e attento sguardo “oltre la forma” poiché in loro Arturo Faiella, condividendo l’estetica della Pop Art, ha saputo esprimere la realtà politica e sociale su cui ha fissato lo sguardo di artista-medusa, cogliendone l’attimo fenomenico.

Raffaele Giannantonio
Presidente del Circolo d’Arte e Cultura “Il Quadrivio” di Sulmona


L’arte ha il pregio di assumere innumerevoli forme e non esiste una definizione unica che possa contenerla. La lettura di ogni opera, infatti, non può avvenire in modo autoreferenziale o astratto ma presuppone una conoscenza perché ogni lavoro è lo specchio dell’autore e del suo vissuto, qualunque esso sia.
La bi-personale oggi presentata al MAW da Simone D’Amico e Wladimiro Maraschio, dal titolo “Non siamo mica gli americani”, è un insieme di lavori che hanno come unico punto in comune il linguaggio dell’arte.
Le forme e la materia fungono da filo conduttore e se anche l’osservatore dovesse trovarsi di fronte a rappresentazioni visivamente in antitesi fra loro, avrà pur sempre i cennati elementi come trait d’union e sarà in grado di comprendere che la diversità non è altro che pura apparenza. Quello che conta davvero non è l’opera in sé, ma il linguaggio che riesce ad esprimere. 
Ognuno fa ricorso agli strumenti che più si adattano alla narrazione. Nei dipinti del D’Amico emergono scene di vita quotidiana, reali o immaginarie, che attraverso l’arte diventano veri e propri momenti di una poesia, non legata però alla parola, ma alla linea, al colore e alla materia, che insieme formano comunque un linguaggio. Due lavori del D’Amico meritano una sottolineatura: “Selfie”, un’opera su carta, e il “Timido”, un’opera su cartone telato. Forniscono uno spaccato sul mondo contemporaneo, uno sguardo universale su quello che siamo. Non si può non menzionare, poi, l’opera che conferisce il titolo alla bi-personale, “Non siamo mica gli americani” un quadro in cui è ritratto Donald Trump in compagnia di sua moglie, la deliziosa Melania, realizzato subito dopo le ultime elezioni americane che tanto spazio, anche nella cronaca italiana, hanno quotidianamente occupato.
Più minimalisti, invece, sono gli strumenti con cui Wladimiro Maraschio esprime il suo linguaggio artistico che si caratterizza per l’uso di materiali non pregiati o addirittura di scarto, come si può notare nelle opere “Coca Cola”, “Mozart” e “Duale”. In “Coca Cola” il soggetto è rappresentato da una lattina di coca cola reietta ma recuperata ed incollata su carta con stucco e retina adesiva. In “Mozart”, invece, il lavoro viene  realizzato su una scatola di cartone che conteneva panettoni di Natale; in “Duale”, infine, l’artista si avvale di un cartoncino per la confezione di biscotti su cui è incollata una serigrafia dell’artista Daniel Tummolillo raffigurante un astronauta, oltre a tavolette da gioco per bambini incollate fra di loro e utilizzate come supporto per la seconda immagine affiancata all’astronauta. 
Sono opere in cui fungono da protagonisti la carta, la tavola ed il cartone.

Carlo La Gatta


Capita a volte di imbattersi in artisti poco conosciuti il cui lavoro si esprime “dietro le quinte” di un sistema che spesso richiede visibilità, presenza, partecipazione. E’ il caso di Vincenzo Marinucci, artista appassionato, sensibile alla natura e a tutte le sue declinazioni, situato volutamente ai margini del mondo artistico e delle sue relazioni sociali. Una scelta dura, la sua, motivata da una personalità introversa, tesa a salvaguardare il suo scrigno creativo, la sua sensibilità, lontano dalle luci della ribalta, di un mondo che forse non avrebbe potuto appagare la sua sete di silenzio e contemplazione. Vincenzo è un abruzzese, di quelli che sentono tutto il valore di una natura forte, di una cromìa decisa, ma anche l’incanto della delicatezza delle tinte di un fiore, della luce dolce di un paesaggio al tramonto.Vincenzo ama il giardino; qui trova raccoglimento ed armonia attraverso l’osservazione della natura, secondo quei princìpi mai dimenticati che dall’arte greca e romana si protraggono fino al Rinascimento, per giungere fino ai giorni nostri, dove il cerchio si chiude in un ritorno senza fine nel rapporto uomo-natura, imprescindibile motore di energia e vita.
La sua formazione artistica gli fornisce gli strumenti per poter realizzare le sue opere: Istituto Statale d’Arte ed Accademia di Belle Arti, infatti, pongono in lui le basi teoriche e tecniche che lo aiutano ad esprimere il suo mondo delicato, dando corpo alle sue visioni poetiche.  Le visioni dell’artista spaziano dal paesaggio alla figura umana, dalla botanica al paesaggio urbano, utilizzando tecniche come il colore ad olio, ma anche il pastello e, non ultima, la fotografia. In alcune opere si percepisce un senso di raccoglimento che invita alla riflessione, ad una sorta di contemplazione di una natura che si fa veicolo per un percorso verso il silenzio e l’osservazione.  Nei fiori, a nostro modo di vedere tra le opere meglio riuscite ed intense, Vincenzo Marinucci lascia trasparire la totalità delle sue capacità: gusto per il colore, composizione ed osservazione del particolare che forniscono una resa finale convincente e coinvolgente.
Chi conosce l’uomo sa della sua indole dolce e premurosa, affabile ed affettuosa. Un animo sensibile che nell’arte trova sublimazione ed espressione, restituendo un universo artistico arcadico e contemplativo nello stesso tempo.
“… ma come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose”.
Un malore improvviso, nel 2016, a soli 59 anni, strappa la vita di Vincenzo per consegnarla all’eternità. 
Lascia una eredità artistica alla lucida e fervida volontà del fratello Vittorio, il quale sente la responsabilità morale di restituire un talento artistico alla collettività, facendo conoscere la sua arte al pubblico, anche attraverso l’organizzazione di mostre di suoi lavori.
A noi arrivano gli echi di queste vedute silenti, riflessive, lontane dal frastuono del mondo, facendoci immergere nel suo mondo intimo e delicato. 
E per questo lo ringraziamo.

Alessandro Antonucci


GIOVANNI SARROCCO
 
“Presenze-Assenze”, ovvero la visibile dimensione fisica della figura umana a duettare con il contesto che ne ambienta la presenza, e quella percebilmente intellettiva tesa ad estranearsi dal contesto circostante stesso nel segno, me lo si lasci passare, di quelle belle rime musicali che recitano “….ognuno diverso/ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi”. Tra pragmatismo e concettualità, muove le sue originali fila l’estro interpretativo e comunicativo di Giovanni Sarrocco. Un dualismo, quello del Nostro, ben pensato quanto sagacemente formulato. Un’accezione validata efficacemente da tutto quanto, nell’impianto strutturale dell’immagine, rappresenta valido motivo di “significante”: attenta propensione allo studio delle geometrie, e sul versante architettonico e su quello più propriamente naturalistico; avvedutezza descrittiva di spazio e ambiente;  equilibrio luministico mediante il razionale impiego delle incisive tonalità di un b/n a sentore narrativo. Ideazione, ricerca di senso, abilità trascrittiva….tutte preziose e indispensabili voci tese a nobilitare il linguaggio fotografico.
 
                                                                                
 PAOLO DI MENNA
 
Si è sempre detto che “il lavoro nobilita l’uomo”. Oggigiorno si potrebbe anche aggiungere “quando il lavoro c’è”. Ma, dolente inciso a parte, una sì nobile voce di rivendicazione sociale e umana in quale misura ha assorbito quel “mutar d’accento” che ne ha relegato l’antico fascino nel cassetto dei ricordi? C’è davvero tanto di sagacia espressiva in questo interessante lavoro di Paolo Di Menna, volto a magnificare valori e virtù di quel vociante mondo “dei mestieri”, ormai storia del nostro passato. Indicative, al riguardo, la dimensione mimica dei volti dei personaggi approcciati, esprimente afflato umano e zelo operativo , e quella sapiente gestualità delle mani a fare un tutt’uno di armonico con le antiche metodiche di lavoro e arnesi connessi. Emblematici ritratti ambientati,  sul percorso di un’operosià serena, dignitosa, alitante saggezza e maestrìa.  Nulla che esuli dalla personalità e dalla sensibilità descrittiva di un autore che una volta di più, con semplicità e naturalezza, attraverso il lungimirante uso del linguaggio monocromatico ha saputo rendere efficaci e credibili i termini di una così circostanziata e godibile narrazione.

Luigi Franco Malizia 


Un figurativo meno evidente, l’assoluta bicromia bianco-nero e la fisica spazialita’ del soggetto sono l’inedito segno dell’ultima produzione di Füsun Akbaygil, pittrice sapiente di vivide favole lontane e dell’arcano del tempo ma degli incanti, anche, e delle domande della vita.
Nel candore dei fogli sottili, fitti tratteggi addensano l’inchiostro irregolare in mosse sequenze di corte campiture componendo un volume che sconfina; un’ampia velatura di china liquida e brumosa tocca distese di piccole macchie e di immacolate porzioni dando vita ad un disegno emozionato, dai tratti di una vasta forma peculiare. Sono figure riconoscibili, anzi familiari. Sono i bastioni immensi e innevati del Morrone e della Maiella che Füsun guarda dalla sua nuova casa, visione ineluttabile e sovrana che da sempre protegge o separa, che accoglie o sgomenta lo sguardo di chi arriva. Luogo inevitabile, per l’artista, per saggiare forme, differenze, pensieri. 
L’incontro con la natura, che aveva gia’ sedotto Füsun al suo approdo in Abruzzo, e’ cambiato ed e’ adesso una dichiarazione di percorso che serve alla composizione di una storia personale. Favolosi e inattesi, gli alberi secolari dell’Appennino mostravano le iridescenze e il sofisticato contorno di una miniatura ottomana; ora la montagna, resa con l’inchiostro nella estrema sintesi della figurazione, pure nell’esattezza e nell’intensita’ dei meravigliosi scenari, e’ con-testo da decifrare, mappa segnica da possedere per orientarsi ed “entrare” in una nuova terra. “Ieri ho dipinto cio’ che sapevo – svelano le parole della pittrice di Istanbul – Oggi dipingo quello che vedo”. E se il rimando e’ dichiarato alla disciplina, amata e frequentata, dell’antica pittura calligrafica, l’allusione delle nuove prove alla visivita’ dell’Oriente piu’ lontano conferma il significato di una scelta che non e’ soltanto estetica e formale. Nel segno dell’antica lezione, e’ un attento, vero esercizio di “ trascrizione” che l’artista compie con il suo gesto: per “apprendere” il paesaggio, coglierne il soffio che puo’ trasformare, inscriverlo in noi. Nella natura, sembra dirci Füsun, il viaggio necessario per ancorarsi, come alla terra delle proprie radici. Come quella, per lei, del mare e degli alti orizzonti, dell’Egeo piu’ spinto ad oriente, del sole che smalta le onde di grano e le colline e trasfigura i colori degli elementi. Ed ecco allora i paesaggi dolci e voluttuosi dell’estate del “ritorno”, immagini che toccano gli occhi e il profondo, linee e cromie che seducono e ricoprono, questa volta, la tela narrando di un altro legame, denso e senza tempo come le pastose stesure che hanno il segno di una morbida straniante pittura “en plein air”.
Due storie, due cammini. Ma nella differenza delle narrazioni – differenza sorprendente e felice di stili e differenza dei mondi, fisici e psicologici, che certo sprigionano le diverse espressioni – un’unica tensione, che e’ la stessa irrinunciabile ricerca di un principio che ci colleghi agli universi che vivono intorno a noi. Nelle chine meditative di un inverno da addomesticare, nei dipinti smaglianti di una terra mai lontana, in questo viaggio duale, la direzione e la meta sono le stesse, come il cielo che guarda chi e’ in cammino.

Italia Gualtieri