2016

Nella maturata condivisione di quanto sosteneva nel 1903 il pittore Gennaro Della Monica amico di Patini, e cioè che, per un artista,  il disegno <<se non è tutta l’arte, è senza dubbio il primo elemento per estrinsecare il proprio concetto>>,  si fa particolarmente motivato il consentimento per la scelta di imperniare la presente occasione espositiva su un primo, sapido assaggio di 40 fra le oltre 500 prove a matita, sanguigna, cera ed inchiostro, che  Giuseppe Bellei eseguì dalla fanciullezza all’ultima fase di operosità. E questo perché anche nello specifico caso, al pari di quanto si è verificato nell’affrontare le ricerche su Della Monica e altri maestri, da questi fogli, raramente datati ma generalmente collocabili nel tempo attraverso l’esame comparato con le opere a cui si sottesero, è possibile ricavare, come  dalle pagine di un articolato diario segreto, indicazioni e segnali idonei a mettere in luce tappe, fasi e risvolti del laborioso rovello creativo del loro Autore in maniera più analitica e  indicativa di quanto emerga dai più noti esiti da lui conseguiti nella duplice veste di scultore e pittore, da intendere, come attestano i 10 esemplari emblematicamente esposti, quali scansioni strettamente complementari, univoche e precipue della ricerca straordinariamente unitaria e coerente che rappresentò il suo obiettivo primario. Vi è documentato il suo cammino fin dalle esperienze iniziali. Quel volto di contadinello da lui evocato sotto la evidente guida di Alfonso Rossetti, il raffinato cultore della sanguigna e della grafica al quale egli si sentì sempre debitore per gli insegnamenti ricevuti nella Scuola d’Arte di Sulmona, permette di constatare quanto difforme dal Maestro e già soggettiva fosse l’indole che si andava in lui fin da allora dischiudendo. Riferimenti a volte specifici consentono di approfondire e ricalibrare le ascendenze che hanno presieduto alla sua interpretazione della realtà, dall’avvio nel solco della tradizione all’acquisizione della sintesi cézaniana  del cono, sfera e cilindro; aiutano a documentare come, dal soggiorno romano in poi, la sua creatività plastica evolva verso una sempre più pronunziata propensione all’idealizzazione, anche puristica; come progressivamente accolga e rielabori in chiave soggettiva suggerimenti desunti dalla cultura estetica antica, moderna, contemporanea e come, specie negli anni Trenta, si volga a modelli coevi di cui danno conto sia le prove di pittura, alle quali non sono estranei echi della Scuola Romana ed elementi del mondo emblematico di Tomea, sia e soprattutto nel modellato in cui la principale attenzione è rivolta alla memorabile lezione di Arturo Martini. In numerose tavole si colgono allusioni talora precise e articolate, talaltra ancora da focalizzare e interpretare ulteriormente sul progressivo impegno volto a dar corpo a quel suo ideale estetico e formale incline alla sintesi e alla perfezione, contraddistinto da quei peculiari ritmi curvilinei e volumi rotondeggianti debitori forse anche a suggestioni derivate sia da Moore che da Arp,  e nei quali trova matura espressione quel suo modo nuovo e soggettivo di fare scultura  e pittura e quindi solo ed esclusivamente pittura fra empiti basati su sentimenti a volte orientaleggianti, a volte proclivi ad evocazioni di maschere o di simboli dal sapore preistorico oppure arcaici dalle singolari connessioni con la cultura dei Maya e degli Aztechi, come se ombre e rituali di questi popoli fossero sempre pronti a rifluire nella sua fantasia creatrice attraverso le naturali componenti del sangue ereditato dalla madre latino – americana. 

Cosimo Savastano


Misura di una relazione. Verifica di corrispondenza spinta al risultato assoluto: vero o falso. Cinque artiste e un artista tra i piu’ rappresentativi di vari linguaggi e tecniche espressive della scena contemporanea italiana attraversano  il territorio “insicuro” delle categorie femminile/maschile per testare la validita’ di un’uguaglianza desiderata. 
Nel dominio che non declina dello stereotipo sessuale, nella radicalizzazione delle istanze del se’, che postula e afferma la distruzione di corpi, ruoli, identita’, e’ ancora in gioco l’equivalenza delle espressioni, la parita’ delle condizioni, comunque specificate, che puo’ essere soltanto vera o soltanto falsa, assumere solo uno dei due valori.  
Ispirato al significato e alla suggestione del simbolo matematico, il progetto indaga il discorso artistico che esplora il genere e il duale, che dissemina sguardi e letture inquiete, che apre alla ricerca di senso, di direzioni…

Italia Gualtieri



Ventitre’ ritratti pungenti e provocatori mostrano vissuti che preferiamo ignorare. E’ lo sguardo di Lamar23, occhi dritti sulla catastrofe piu’ negata, segno deciso a liberare com-passione.  Urtando per necessita’ il mondo separato del disagio mentale, l’artista ha piegato a se’ la norma di una professione armandola con la poesia. Se da sempre il tema della sofferenza psichica e’ stato complice e oggetto dell’arte e se i protocolli di cura hanno abbattuto, non da oggi, muri e barriere per nuove integrazioni, la disabilita’ della mente resta corpo “guardato”, esiliato, nel confine tra il normale e il deviante che i dispositivi estetici e sociali non riescono ad annullare. Ma la figurazione di Lamar23 rompe il diaframma, estensione di una prossimita’ fisica ed emozionale autenticamente esperita nel quotidiano. Attratti nel turbine di un acuto talento disegnativo, i suoi soggetti attraggono a loro volta, ci interrogano, ci avvicinano, per la sostanza che una linea appassionata, un tratto com-mosso da un’urgenza di restituzione, conferisce loro. Cosi’ Virginie, che inciampa nelle parole e si affida alla gentile petulanza di un mancato ‘bonjour’ per non cadere (“Our”); Jerôme, scampato suo malgrado dai gorghi della Senna, che infila se stesso in un giornale per appagare il suo spasmodico ego – morendo sarebbe finito su tutte le “prime” (“L’homme journal”); Sylvie, che si dispiega solo annegando in oceani di sedativi (“Il genio del Tercian”) e Thierry, imbarazzante con il suo desiderio/terrore delle donne (“Embrasse-moi”)… Profondamente umani e reali, essi ci raggiungono grazie ad uno sguardo che ascolta, ad un segno demiurgo. Con l’icasticita’ di una caricatura che mai cade nell’umorismo, nella traccia nervosa e sensibile, emanano una verita’ non fanatica ma netta che dischiude le porte di inedite sintonie. L’arte si fonde con la denuncia e l’utopia e, come nella tradizione, Lamar23 prende la parola con il disegno, pura voce dell’ispirazione.

 Italia Gualtieri



Un gioco, ma nato su un’idea seria e complessa. 10x10xMAW è stata un’eccitante finzione ma anche un discorso sui meccanismi che regolano l’organizzazione dell’arte. Quanto è difficile entrarvi per un giovane artista? Cosa è arte, oggi, e quanto condiziona il suo esprimersi la rete delle strutture e delle professioni con cui deve confrontarsi l’autore?  La call lanciata dallo Spazio MAW sull’idea dell’artista Valentina Colella di una pratica concreta ed “estrema” – il prodotto artistico al centro, senza mediazioni –  per parlare di altri scenari, si è rivelata l’occasione che si aspettava e che ha portato allo scoperto un bisogno e un consenso diffusi e trasversali a nuovi approcci. Una piccola opera di 10cm x 10cm prodotta per essere esposta in forma anonima; una mostra in cui il pubblico sperimentasse la libertà di scegliere e di acquistare senza altro filtro che non fosse il suo sguardo; una selezione condotta da professionisti dei diversi settori del mondo dell’arte alle stesse condizioni date al pubblico e agli autori: queste le poche, “divertenti” regole che avevamo posto e che sono bastate a liberare un’urgenza, ad innescare la prova di un assetto diverso di relazioni. La risposta è stata straordinaria. Nell’arco di dieci settimane, la possibilità di un’interazione esclusivamente empatica con l’arte, fuori dai condizionamenti comunemente imposti dall’accademia e dal mercato dell’arte, è diventata un’opportunità reale e perciò intrigante tentazione. L’artista ri-prende la parola e sprigiona le proprie pulsioni creative; il pubblico si avvicina e muove senza inibizioni; il critico scandaglia le radici di un ruolo. Componendosi nella zona franca di una simulazione, un vasto, inedito art mix prendeva vita imprimendo perturbanti riflessioni e processi, forte di quella potenza comunicativa che proviene dalla libertà del gesto e quindi del segno, ma anche dall’autentica capacità di rappresentare (e indicare) un sistema poggiato sulla libertà della creazione e del suo fruitore.Un gioco, senz’altro, dove tuttavia il MAW ha incarnato la sua duplice vocazione: laboratorio di una modalità partecipativa nel consumo e nella diffusione dell’arte contemporanea e nello stesso tempo spazio di valorizzazione delle identità e delle forme espressive che reputa meritevoli di attenzione. Il riconoscimento all’autore dell’opera più votata nella selezione prevista dalla call – la mostra personale 10x10x1 offerta grazie ai fondi raccolti con l’evento – lo conferma. E siamo felici della scelta della giuria che, premiando il lavoro di Giuseppe Zema (Dazo Molino), ci ha permesso di far conoscere la sua ricerca: un’indagine fresca, lontana dall’ufficialità, ma dai temi e dalle radici importanti. Un’altra azione reale dello spirito che ci anima e che amiamo. L’esperienza apre a domande e visioni.

Italia Gualtieri, Rino Di Pietro
Curatori Spazio Maw
​Valentina Colella



“… E ancora mi domando quale sia il bisogno profondo che mi spinge alla creazione  attraverso una materia umile come l’argilla. Forse è il senso del vuoto, di estraniamento che chiede di essere riempito da qualcosa che abbia un peso  e restituisca alla spazialità le sensazioni evanescenti e misteriose comunque collegate al quotidiano prosaico e spesse volte, drammatico. O forse, in un mondo dominato dall’apparenza e dal tripudio del futile, c’è per me  il bisogno di recuperare il rapporto con la materia originaria ….”

​Maria Angela Nocenzi fin da piccola coltiva un istintivo amore per le belle arti conseguendo buoni risultati in pittura e scultura che ama moltissimo. Con la maturità avverte che il suo spazio interiore è quasi totalmente occupato dal desiderio di portare la sua esperienza di artista a nuova crescita. La Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Roma; l’incontro con il gruppo di Gino Guerra della Unitre di Marino, città dove è nata e vive attualmente, hanno affinato in lei capacità espressive e sensibilità verso la forma. Autodidatta in ambito artistico, ritiene che l’espressione artistica rappresenti lo spazio insostituibile grazie al quale l’essere umano può evolversi. Ritiene inoltre che l’arte rappresenti in maniera inequivocabile la vocazione dell’essere alla dimensione del sacro e del divino.


La sessualità è il tema di questa mostra che segna il debutto del Collettivo che unisce in un progetto comune le artiste Gessica Di Nino e Yoselin Giovani e la scrittrice Michela Di Gregorio. Se oggi più che mai l’arte ha il dovere, e anche il potere, di far riflettere lo spettatore sulla condizione umana contemporanea, le tre autrici  scelgono di incrociare il loro impegno espressivo per affermare con forza l’idea del fatto artistico non solo come creazione meramente estetica ma anche e soprattutto come impegno sociale. Si innesta qui l’esordio tagliente del gruppo che esplora una realtà centrale e rimossa della coscienza, la cui lettura estrema e “oggettiva” trova esiti dirompenti. Nella società delle merci che invadono l’intimità, delle consuetudini crudeli perpetuate dai fini del potere, la sessualità è il vissuto della sua negazione, spazio intricato dell’ipocrisia e del divieto che perverte e condanna: al corpo rubato, comprato, frugato, violentato; deprivato della forza creatrice dell’emozione e del desiderio; offerto dalla stessa vittima che non ha che la sua tragica vita per vivere ancora… Prendi questo corpo e rendo grazie…Impalpabili e colorate, inattese allegorie attraggono e perturbano il visitatore; merci “deviate”, accuratamente costruite come prelievi dal reale, attirano e spostano in atroci simulazioni il nostro gesto quotidiano. Leggere e delicate, a volte plastiche e iperreali, le opere e le installazioni, e la forma intangibile delle parole, immergono in una lettura ravvicinata, in un’esperienza tattile e sono lo specchio delle derive, delle fragilità, delle impossibili speranze delle creature che questi vissuti percorrono… Io rendo grazie, e crollo… è la voce dolorosa dell’artista. E un filo nero di morte imprigiona i nostri passi e l’energia di un’altra visione. Ma è acido bruciante questa mostra, che libera nuovi pensieri.

Italia Gualtieri


Scovato tra i rottami, nei luoghi dimenticati; scrutato, osservato, studiato, accarezzato, il ferro delle cose abbandonate muove e appassiona il lavoro di Gianni Colangelo, alias MAD, art designer del metallo per vocazione, artista “meraviglioso” per innamorata follia.  Negli oggetti deformati, negli arnesi usurati, nei congegni dismessi, nelle ammaccature, la materia degradata è traccia di vissuto che colpisce al cuore e accende gli occhi, rendendo figure alla visione. Documento di storie che finiscono/cambiano; deposito di forme offerte all’immaginazione. Il badile di un mestiere perduto, gli strumenti che lo hanno sostituito, gli ingranaggi rotti di mille attività quotidiane non muoiono ma modellano creature irreali materializzando pensieri. Colangelo MAD è figlio giovane di una vicenda antica che ama e racconta ma senza retorica perché il passato è linfa insostituibile del tempo presente ma le angosce di oggi chiedono il coraggio di essere indagate. Ecco allora il forte e mai quieto legame con la terra abruzzese – terra dura di una storia contadina e di pastori – dove l’artista ha scelto di vivere e operare; ecco il rovello dell’assurdo della Natura, perfetta ed effimera; del fluire del tempo, del nostro finire, che l’arte ha la consegna di allontanare. Per questo lo scheletro lo attira, e più di tutto la sua optima pars, il teschio, senza pulsioni necrofile, né lugubre istinto, ma come forma singolare e complessa, elemento primario, principio di conoscenza. Nascono così i teschi animali delle Anatomie meccaniche, cloni metallici di altrettanti crani ossei ostentati nel loro prodigio, a parlare del perpetuo dualismo naturale/artificiale; le opere cinetiche, come La MorteMacchina infernaleL’ultima Cena, sculture-installazioni animate dall’inserimento di parti robotiche, che all’energico connotato sperimentativo uniscono il forte rimando alle tematiche prime dell’esistenza; e, ancora, la serie recente delle Sindoni, tributo singolare di inattesa liricità alla triste epopea delle cose buttate, le cui indelebili impronte vogliono fissarsi negli occhi e nel ricordo.
Nate da un immaginario allo stesso tempo fantastico e molto attuale, le sculture e le installazioni di MAD sono l’espressione di un’inedita poetica della memoria formulata attraverso l’uso “altro” di ferraglie provenienti dal lavoro e dalla tradizione di una terra molto amata, nel tentativo continuo di placare eterne ossessioni. Eclettiche e surreali, mosse da un bisogno irrefrenabile di “meraviglioso”, le congerie metalliche saldate e lisciate dal genio vigoroso del giovane ecoartista si erigono a sorprendenti artefatti dove le tracce di un fare antico e di moderne fatiche trasfigurano in pensose mirabilia, nuove Vanitas tremende e giocose che traducono l’urgenza di un racconto sulla vita. Una sorta di “wunderkammer”, l’arte di MAD, stanza moderna di meraviglie abitata dagli oggetti più disparati e da una follia necessaria che restituisce senso alla nostra condizione. 

Italia Gualtieri



La luce sembra rompere e uscire dalla materia, fino a dominarla. E’ la scultura di Luca Giardino: i tondi massicci di legno polito, le lastre tenaci ed esatte di metallo, gli assemblaggi maestosi di ferro, legno e vetro, la cui perfezione è interrotta e letteralmente spezzata da larghe fratture irradianti una luce che sembra anzi all’origine di quelle crepe, volendo quasi sfidare la dura unità delle forme geometriche. Luce intangibile contro corpo solido. O forse dentro. Perché il contrasto, racchiuso in ognuna delle opere, non genera una tensione: la fonte luminosa che spinge la luce ci investe e sovrasta come un  richiamo. E’ coscienza della materia visibile, senso e memoria degli elementi, della terra che calpestiamo, delle sue tremende e necessarie fratture che l’uomo, egli sì, cerca di comporre con impossibili suture. Tutta la ricerca artistica di Luca Giardino muove e discorre di questa percezione, sospesa tra limpida seduzione del reale e fascinazione misteriosa della materia. Come una fede incondizionata nella fisicità delle cose, il mondo plastico di questo artista celebra la cruda e vitale essenza: della pietra, elemento delle sue prime creazioni; del legno, del vetro e del ferro, vero materiale di traino, quest’ultimo, del lavoro di Giardino, ed emblematico, per quelle “cuciture” che forza e sapienza delle mani “passano” sulle forme sempre diverse – ideali e geometriche, figurative e astratte – costituendo un segno riconoscibile, la chiave di un pensiero, anche nella loro assenza. Perché se la tensione argomentativa sale e si connota fortemente nel motivo dello squarcio “cucito”, essa tocca il suo acme e si libera quando i tagli luminosi percorrono insanati le dure superfici, vene libere/liberate di un magma bruciante, di un sostrato vivo, a memorare consapevolezze dimenticate. Nel rifiuto e nell’opposizione, spesso spasmodica, dell’espressione artistica contemporanea nei confronti delle tecniche e dei materiali tradizionali, le opere di Luca Giardino sono metafore di un essere al mondo sicuro e indissolubilmente legato all’esperienza profonda della sua materia. Primitive nella loro creazione, inattese nella stesura, che può raggiungere imponenti dimensioni, trasudano il pathos di un gesto demiurgico che ci ri-compone nell’integrità dell’universo. Sono sogni radianti, è vita luminosa che scuote le nostre anime e la nostra immaginazione.

Italia Gualtieri